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Andare da uno psicologo serve davvero? Ecco cosa ho imparato in un anno di sedute


In questo articolo condividerò con totale apertura tutto quello che ho imparato in un anno di psicoterapia.

Ti racconterò perché ho iniziato, cosa ho imparato e condividerò con te tutto quello che avrei voluto sapere prima d'iniziare ad andare da uno psicologo.

Leggendo questa guida non solo capirai in che modo lo psicologo può esserti di aiuto, ma avrai tutti gli strumenti per valutare in modo chiaro e consapevole il mondo clinico dell’auto-aiuto.

Iniziamo!

11 maggio 2021

Sono le 17:57, sono in sala d’attesa e a breve lo psicologo mi farà entrare.

Sono entrato in quell’edificio portando con me un po’ di stress, dovuto a una giornata di lavoro pesante, e il mio solito energico entusiasmo.

È una creativa collisione di complementarità.

Lo stabile ha delle condizioni vecchie, fredde e tratti sterili.

Il calcestruzzo è impregnato di energia negativa e io percepisco di trovarmi in un luogo che ospita quotidianamente sofferenza.

Dopo poco più di quattro minuti arriva una persona.

È estremamente formale, mi dà del “Lei”, mi accoglie con una voce sottile e pacata e mi invita a percorrere il corridoio e a entrare nell’ultima porta a sinistra.

Seguo le sue indicazioni e mi ritrovo in un ambiente confortevole e intimo.

In quella stanza sarebbe avvenuta la nostra prima seduta.

Inizia chiedendomi perché sono lì, e in pochi minuti gli sviscero due punti chiave che vorrei migliorare attraverso un vero e proprio percorso:

  1. Il rapporto con i miei genitori
  2. L’ansia della performance che talvolta mi fa essere ossessionato dai risultati e non mi fa godere il processo

Mentre gliene parlo con leggerezza, penso a tutte le persone che lui era abituato a incontrare.

Io sono sicuramente vittima dei miei condizionamenti, ma sono prima di tutto curioso e interessato a essi.

Aveva mai conosciuto persone più curiose che vittime? Chissà.

Questo quesito dimora dentro di me mentre continuo a raccontarmi e raccontargli di me, del mio lavoro, della mia storia, del mio percorso, della mia famiglia, dei miei interessi e dei miei esperimenti sul sonno.

Indaga, vuole esplorarmi e io mi pongo come alleato, cerco di capire a cosa è interessato e lo aiuto nella sua ricerca.

Una domanda in particolare mi ha incuriosito di più tra tutte.

Qual è la persona più importante per te in questo momento?

Ho sempre risposto riferendomi in senso generico alla mia famiglia ma quando è voluto andare oltre chiedendomi: “Qual è la persona che più tra tutte ha contribuito alla tua crescita?” Sono rimasto in silenzio e poi con fermezza ho risposto:

Me stesso.

Questa risposta è dannatamente vera.

Ho argomentato la mia tesi parlando del fatto che tutto quello che ho fatto per la mia salute negli ultimi quattro anni è stato solo e soltanto merito mio.

Quando volevo comprare l’anello per analizzare il sonno i miei genitori mi guardavano perplessi non capendo.

Quando ho finito la scuola e ho voluto fare il cameriere per coltivare la mia indipendenza e non gravare sulle loro spalle i miei genitori non capivano.

“Un genitore dovrebbe accettare l’indecisione del proprio figlio”

Questo è quanto ho scritto l’11 aprile sul mio diario.

Da ragazzini si è fragili, insicuri e indecisi, si è estremamente volubili e ci si lascia plasmare molto dalle influenze dei genitori.

Io ad esempio quando ho finito la scuola, quattro anni fa, ho fatto molta fatica a imboccare una strada lontana da influenze esterne perché non sapevo realmente ciò che volevo.

La mia incertezza veniva percepita come una lacuna da colmare con consigli e suggerimenti di ogni genere.

Il problema è che i genitori ti danno consigli sempre solo e soltanto sulla base di ciò che SECONDO LORO è giusto.

Da persona fragile ci si fa plasmare e si cerca di ascoltare e seguire quei consigli perché si ha il timore di deludere.

Questo finché poi non ti rompi il cazzo, decidi di prendere in mano la tua vita e allora subentra un meccanismo di difesa aggressivo per riuscire a sviluppare una propria indipendenza emotiva e interiore lontano dai condizionamenti di “giusto” e “sbagliato” degli altri.

Ecco la storia della mia vita.

Quell’ora insieme giunge al termine e, prima di salutarci, concordiamo altri due incontri che serviranno per conoscerci meglio e strutturare il nostro percorso.

Ci vedremo il 3 e l’8 giugno.

Sono molto affascinato dal suo modo di studiarmi e di esplorare il mio mondo interiore.

Cosa vede? Cosa sente? Come sono ai suoi occhi? Cos’ha in mente di fare per aiutarmi?

Esco dalla stanza con tutti questi quesiti e con la testa che mi gira.

Mi sento come se fossi uscito da un luogo senza tempo: È una sensazione stranissima.

Attraverso questa prima seduta ho tratto e interpretato queste considerazioni.

Inoltre, attraverso alcuni scontri con i miei genitori, ho iniziato a capire perché reagisco con aggressività.

Sono bastate semplici domande, unite a momenti di ascolto e di vuoto: L’introspezione funziona così, ha bisogno di spazio e di tempo.

Confesso però che non so se la mia percezione sia corretta o meno, intanto, la condivido così com’è.

Avrò modo di smentirla e sistemarla mano a mano che il percorso con lui e con me stesso proseguirà.

Andare da uno psicologo serve davvero? Ecco la risposta!

Svolgo quotidianamente autoanalisi su me stesso.

L’introspezione è una droga per me.

Trasformare il caos in ordine è una mia peculiarità e, oltre un anno fa, ho sentito il desiderio di accelerare e migliorare ulteriormente questo processo.

Per questo motivo ho deciso di affidarmi a una figura professionale che mi aiutasse a migliorare sempre di più: Uno psicologo.

Perché uno psicologo? A cosa cavolo serve fare un percorso di psicoterapia?

Ti rispondo con una nuova pagina del mio diario tratta dalle mie sedute.

Diario di viaggio introspettivo: Il silenzio e il vuoto delle mie ombre

Sono le 10:03, lo psicologo mi invita a entrare.

Sorrido e lo seguo.

“Solita stanza?” Chiedo. Annuisce.

Entro, mi siedo, fa lo stesso e poi: Silenzio.

Sono in imbarazzo, perché nessuno parla? Perché nessuno proferisce parola?

Mi sento assalire da un senso di disagio e inizio a chiedermi se sto facendo qualcosa di male… Dovrei parlare? Cosa potrei dire? Accuso me stesso per non essere preparato.

Sono seduto lì dentro da poco più di 120 secondi e ho già visto in azione alcuni condizionamenti della mia mente, semplicemente stando seduto in silenzio in una stanza con una persona che non conosco… Che figata!

Dopo 180 secondi decido di rompere il silenzio e, con un po’ di timore, chiedo: “Devo parlare a ruota libera io vero?”

Con un tono di voce freddo e distaccato mi dà del “Lei” e pronuncia le seguenti parole: “Si ricorda quanto le ho detto l’ultima volta?”

Sono passati più di 3 mesi, è la mia prima vera seduta dopo i primi quattro colloqui conoscitivi. La risposta è affermativa: Mi ricordo le regole che mi aveva illustrato.

Da adesso lui sarò una figura imparziale che mi ascolterà senza interferire con i miei monologhi. Dovrò proferire parola sviscerando tutto quello che mi passa per la testa.

Sembra interessante, però cazzo mi aspettavo almeno un inizio un minimo più accogliente, tendenzialmente non entro in una stanza con uno sconosciuto iniziando a fare il logorroico.

Beh c’è sempre una prima volta.

Rispondo in modo affermativo alla sua domanda e parlo proprio dell’imbarazzo che ho provato pochi secondi prima, alternando momenti di risate per alleggerire l’accaduto e rispetto per il mio stato d’animo.

In quel momento si crea una sorta di processo alchemico, un cambiamento biochimico interiore. Il disagio che ho provato si mischia alla genuinità che io stesso ho evocato con le mie risate e con il mio modo di fare leggero e spensierato.

Ho comunicato a me stesso: “È vero ero un po’ in imbarazzo, lo rispetto, lo accetto e ora mi faccio anche una piccola risata, in fondo che problema c’è”.

Lui non dice niente, resta impassibile.

Ha reale interesse per quello che sto dicendo? Me lo sono chiesto spesso durante i monologhi che ho portato in essere durante quei 48 minuti.

Pensandoci poi ho capito che è una domanda sbagliata e poco efficace in partenza. Perché? Beh ragioniamo.

Perché sono lì? Per chi sto realmente parlando? Per lui? O per me stesso?

Per me stesso. Bene.

E a cosa serve parlare per me stesso in un ambiente imparziale dove non ricevo alcun consiglio, nessuna reazione di alcun tipo, se non qualche cenno tipo “mmm”? A cosa diavolo serve?

Questa è una domanda che ha fottutamente senso! Bravo Salvatore per averla formulata (auto cinque!)

Ecco la risposta: Serve dannatamente tanto!

Quando parli lasciando fluire senza filtri, vincoli o costrizioni dai voce al tuo potenziale inespresso, lasci spazio alle tue ombre e ai tuoi demoni affinché siano. Semplicemente siano.

Vedi molto spesso iniziamo a nascondere tutto ciò che è ritenuto cattivo o immorale dalla società, tutto ciò che è disapprovato dalla nostra famiglia o dai nostri pari, tutti i tratti che quando espressi inizialmente erano ridicolizzati, evitati o sottoposti a punizione.

Carl Jung definiva queste cose il nostro lato oscuro inconscio.

Sempre secondo il buon Carl l'obiettivo corretto di un individuo è la completezza, non la perfezione.

Il percorso verso un personaggio più grande, verso un approccio più efficace alla vita, sta nell'integrare quegli elementi della nostra psiche che per troppo tempo sono stati repressi e negati.

Parlare e lasciare riecheggiare il silenzio ti dà modo di fare tutto questo poiché puoi reagire con accettazione, puoi conciliare con amore queste parti di te che hai ripudiato e puoi ascoltare l’eco di quello che stai dicendo.

Un po’ come ho fatto io ascoltando il giudizio nei confronti di me stesso dopo neanche due minuti che ero seduto in quella stanza.

Output e benefici: Ecco tutto quello ho imparato in un anno di terapia

Sebbene talvolta utilizzo un linguaggio filosofico-astratto sono una persona molto concreta, per questo motivo dopo circa 40 sedute ho tirato le somme e mi sono chiesto cosa mi porto a casa da questo percorso.

Nelle righe che seguono condividerò con te la risposta e vedrai l’output e i reali benefici che ne ho tratto.

Calma e unione con la mia famiglia

Forse il più grande sfregio di tutti è quello di non venire assecondati e supportati nel diventare la persona che siamo in realtà, ma di venir condizionati a diventare la persona che gli altri (i genitori, gli insegnanti, la società in generale) si aspettano e pretendono da noi.

Rielaborare il mio vissuto familiare è stato il primo e più importante obiettivo che mi sono posto.

Come ti ho raccontato qualche riga più su ho creato dei meccanismi di difesa per non permettere ai miei genitori d'interferire nella mia vita.

Non che loro lo facessero più di tanto, però ero insicuro e fragile e avevo difficoltà a convivere con le loro interferenze, per questo reagivo con chiusura, distanza e irrequietezza.

Attraverso questo percorso ho portato luce e chiarezza a questa parte di me ferita, le ho spiegato che nessuno vuole controllarmi e che anche volendo questo non è possibile, sono il solo e unico responsabile della mia vita.

Adesso sono calmo e creo unione.

Serenità nel momento presente libero dal senso di performance

C’è stato un momento della mia vita in cui non riuscivo a stare senza far niente senza sentirmi un fallito.

Sentivo il peso dell’infelicità. Per essere felice dovevo produrre, fare e ottenere di più altrimenti mi sarei sentito inutile e in colpa con me stesso.

Questa condizione viene descritta accuratamente bene nel libro di Andrea colamedici e Maura Gancitano (fondatori del progetto Tlon).

Si tratta di un aspetto legato all’impazienza e all’insicurezza.

Vogliamo arrivare in cima il più velocemente possibile, non abbiamo la pazienza di aspettare. Siamo inebriati dall’idea di salire di rango, di fare e di ottenere sempre di più. Sentiamo la necessità di avere elogi e conferme altrimenti non ci sentiamo abbastanza.

Questo percorso mi ha permesso di far caso a tutte quelle volte in cui ho cercato conferme verso l’esterno e ricordarmi, invece, di rivolgere il mio sguardo dentro di me.

Apertura nei confronti delle mie vulnerabilità

Possiamo essere in grado di esprimere la rabbia e la tristezza, ma il nostro nucleo rimarrà nascosto. Ci sposteremo verso una compensazione per compiacere o per entrare in contatto con il terapeuta. Al contrario, abbiamo bisogno di essere legittimati a muoverci secondo i nostri tempi e ci deve essere dato spazio assoluto per scoprire il nostro personale modo di sentire ed esprimere le emozioni. Uno psichiatra, incontrato durante il mio tirocinio in psichiatria, fu il primo che mi aiutò ad accorgermi che la mia difficoltà nel sentire ed esprimere le emozioni era causata esclusivamente dal fatto che le sensazioni venivano espresse raramente - o forse mai - nella mia famiglia. Quella fu la prima volta in cui un terapeuta diede valore alla mia relazione con le sensazioni e, grazie a quel riconoscimento, cominciai ad allentare la pressione su me stesso.

La stanza dove si fa psicoterapia è come un laboratorio di sperimentazione imparziale e controllato, dove ferite e vulnerabilità possono uscire allo scoperto e manifestarsi.

In questo modo si impara a poco a poco a guardarle in faccia e in questo modo si guarisce interiormente.

Quello che devi sapere è che la sofferenza è solo il rifiuto di accettare ciò che è. Questo è tutto. Guarire significa permettersi di sentire. In questo ecosistema hai la possibilità di farlo.

È doloroso, fa paura, ma funziona.

Psicoterapia: Un’analisi socioculturale

Dopo averti raccontato del mio intero percorso, in questa seconda parte dell’articolo desidero donarti tutti gli strumenti che ti servono per aiutarti a valutare in modo chiaro e consapevole il mondo clinico (e non solo) dell’auto-aiuto.

Partiamo con alcune cose che avrei voluto dire a me stesso prima d'iniziare la psicoterapia.

Quando ho iniziato il mio percorso ho completamente ignorato questo aspetto, eppure fa tutta la differenza del mondo!

La psicoterapia può avere decine di approcci diversi, è importante analizzarli e capire quale può fare al caso nostro in funzione degli obiettivi che abbiamo.

Nel mio caso il mio psicologo aveva un approccio freddo e distaccato e seguiva un orientamento psicodinamico, il che significa che durante le sedete esplorava i “movimenti” del nostro mondo interiore, che avvengono tra coscienza e inconscio. Quest'ultimo è un mondo nascosto, dove ha origine tutto ciò che non è razionale, così come ad esempio i nostri desideri più profondi.

Posso dire di essere stato particolarmente fortunato, perché era esattamente il tipo di approccio di cui avevo bisogno, ma non sempre è così e questo può portarti a cambiare molte volte psicologo.

Per questo, prima d'iniziare il tuo percorso, ti suggerisco di consultare questo articolo che spiega tutti i diversi approcci che puoi trovare.

Tempi di attesa

Per iniziare questo tipo di percorso puoi fare due cose:

  1. Andare da un privato (e pagare 70€ a botta)
  2. Affidarti a un ente statale (e pagare poco meno di 20€)

Io ho scelto la seconda e mi sono rivolto all’AUSL.

Per farlo ho contatto il mio medico, ho richiesto un’impegnativa, ho chiamato il centro psicologico clinico di Mirandola (dove vivo io) e ho preso appuntamento.

Il primo incontro è un semplice colloquio di accoglienza.

Durante questa seduta ho compilato tre questionari e mi sono state fatte un sacco di domande, per inquadrare la mia situazione e capire perché ho iniziato un percorso di questo tipo.

Successivamente vieni messo in lista, in attesa che il primo psicologo disponibile ti prenda in carico.

Purtroppo per il primo colloquio di accoglienza ho atteso 2-3 settimane, mentre per l’inizio vero e proprio del percorso 1-2 mesi.

In totale quindi metti in conto che ci vorranno anche 3-4 mesi di tempo e, anche se risparmi molto, se hai dei disturbi gravi, non è il massimo.

Non ricorderai mai cosa ti hanno detto che ti ha aiutato

Una seduta è un periodo di tempo in cui parlate finché da questo scambio verbale non si arriva a una rivelazione. Una volta che esci dal suo studio, però, non sei in grado di ricordare che frase ha fatto scattare la rivelazione. È frustrante.

Questo è troppo vero! L’ho letto anche nel bellissimo post di Hannah Ewens scritto in collaborazione con Vice (che ti consiglio di leggere) che ho proprio letto prima d'iniziare ad andare dal mio psicologo.

Nonostante io tornassi a casa e scrivessi molto sul mio diario, non riuscivo a decodificare il causa-effetto che portava gli insight e le nuove consapevolezze nella mia vita… BOOH.

L’amore e odio nei confronti del terapeuta

Devi sapere che durante il percorso, il più delle volte, mi sono sentito bipolare nei confronti del terapeuta.

Alle volte lo adoravo e volevo portargli una torta, altre ero per lo più curioso del suo modo di fare, altre ancora lo avrei picchiato per i suoi silenzi infiniti e poi c’erano anche quelle volte dove mi sembrava d'impazzire e arrovellarmi in loop mentali senza fine.

AH, il bello delle sedute dallo psicologo!

Se inizi un percorso di questo tipo sappi che può capitare e la cosa migliore che puoi fare (come mi ha consigliato una mia amica che studia psicologia) è parlarne con lui. La cosa veramente bella è che stai pur sempre instaurando una relazione con lui, quindi la comunicazione è dannatamente importante.

Psicoterapia e malati terminali

Quando raccontavo di aver iniziato un percorso con lo psicologo il mio interlocutore reagiva in uno di questi tre modi:

  1. Temevano che fossi depresso e che potessi suicidarmi
  2. Credevano che fossi diventato pazzo
  3. Mi guardavo come un malato terminale

Il motivo per cui ho scritto questo articolo, parlo d'introspezione, condivido le pagine del mio diario apertamente e senza filtri e per cui sensibilizzo tanto la cura per il proprio mondo interiore è legata proprio a questo aspetto!

È vitale per il nostro processo di guarigione riuscire a vedere e a sentire fino a che punto ci siamo dati via in cambio di amore e di approvazione, e a viverne tutto il dolore.

Desidero donare senso di appartenenza e normalizzare la psicoterapia come uno strumento utile per portare luce, chiarezza e consapevolezza alla nostra vita.

Detto questo però penso sia altrettanto importante il buon senso e una buona dose di pragmatismo.

Parliamone.

La sottile arte di complicarsi la vita

Ci troviamo di fronte a un’epidemia psicologica, in cui la gente non è più consapevole che, a volte, va bene stare male, e quindi si rischia di complicarsi la vita.

Per fare un’analogia:

Così come un raffreddato ipocondriaco si stressa e, al minimo sintomo, si imbottisce di medicine, al più lieve sentimento di sconforto iniziamo a dare di matto e, disorientati e impauriti, iniziamo a ricercare cure e anestetici di ogni tipo, dimenticando che, avere giornate non sempre al top, sentirsi tristi e a volte anche svogliati è una cosa sana e giusta.

Come siamo arrivati a questo?

Beh con il progredire della tecnologia, nella nostra società il livello degli agi materiali è aumentato per molta gente, ed è stato proprio questo benessere a cambiare radicalmente la nostra percezione delle cose.

Quando diventa meno visibile, la sofferenza non è più considerata parte della basilare realtà umana, ma appare un’anomalia, l’indice di un grave errore di percorso, il segno del “fallimento” di un sistema, una violazione del nostro diritto inalienabile alla felicità.

Certo, il desiderio di liberarsi dal dolore è l’obiettivo legittimo degli esseri umani, l’ovvio corollario dell’aspirazione alla felicità.

È quindi giustissimo che cerchiamo le cause della nostra insoddisfazione e che ci sforziamo di alleviare i problemi cercando soluzione a tutti i livelli: globale, sociale, familiare, individuale.

Ma finché considereremo la sofferenza qualcosa d'innaturale, una condizione da temere, evitare e rifiutare non elimineremo mai le sue cause e non riusciremo mai a vivere una vita felice.

Per questo motivo iniziare un tipo di percorso psicoterapico, quando ci si concedere alla propria sofferenza, fa bene. Ci permette di sentire, di guardare in faccia i propri demoni. Si osserva, non si combatte, lasciamo che siano e successivamente lasciamo andare.

Molte persone purtroppo considerano la sofferenza una malattia da combattere e debellare e si perdono la bellezza della vita.

Una vita dove succede sempre qualcosa di meraviglioso nonostante (dio che bella parola) le difficoltà.

Dimoro in equilibrio tra la ricerca di una guarigione interiore ed l’entusiasmo nonostante qualsiasi male.

Questa è la mia filosofia di vita che permette a queste due parti di coesistere, lascia che te la mostri.

La mia filosofia di vita spiegata

Tempo fa, in colloquio con me stesso, mi sono domandato che senso avesse tutta questa introspezione, tutto questo guardarsi dentro e perdersi in labirinti creati da me stesso.

Ecco la risposta:

Crescere, ottenere di più, guardarsi dentro e superare i propri limiti non è necessario al conseguimento della felicità, ma è ciò che rende la vita dannatamente interessante.

Sono sempre andato alla ricerca di strumenti per vivere con più entusiasmo e libertà di essere. Per lasciar andare qualsiasi tipo di giudizio, controllo, idea di separazione, attaccamento, aspettativa, influenze emotive legate alle mie ferite e vivere con unione, amore, ascolto, connessione e gentilezza.

Lo scopo ultimo che smuove e giustifica ogni mio comportamento sta nel desiderio d'integrare ogni mia singola parte, superare traumi, paure, ferite e sviluppare completezza interiore.

Per molto tempo ho utilizzato come scudo questa cosa.

Durante il mio percorso con lo psicologo sono riuscito a rendermi conto che, per un periodo più o meno lungo, ho intellettualizzato la realtà per proteggermi dai sentimenti emotivi.

In altre parole ho sviluppato una iper razionalità a discapito dei sentimenti emotivi e questo ha annichilito il mio intuito, la mia intelligenza emotiva e le sensazioni sottili del mio corpo.

Negli ultimi mesi ho smesso di farlo.

Ho detto basta alle serate spese a leggere libri per evitare di vivere la vita… Come se volessi prepararmi a vivere interiorizzando delle lezioni teoriche, per paura di sperimentarle in modo emotivamente diretto. (Nulla di male se ti piace stare a casa a leggere libri, io lo faccio ancora, ma quando lo faccio indago sempre se sto mettendo in atto un meccanismo di difesa)

Uno dei motivi per cui sono contento di aver portato a compimento questo percorso è perché segna l’inizio di una nuova fase dove voglio smetterla di riempirmi le testa di nozioni di psicologia che mi fanno arrovellare più che darmi libertà.

Voglio sentire, vivere sulla mia pelle e riscoprire e risvegliare l’intuito e le sensazioni sottili del mio corpo.

Il mio equilibrio dunque è nell’entusiasmo: L’evoluzione spirituale complementare al nichilismo.

In un mondo svuotato di senso viaggiare la vita con quiete e leggerezza è una forma di evoluzione spirituale.

La mia filosofia di vita è il semplice essere presenti e accogliere, giocare con la vita: Un’esperienza magnifica e perfetta, navigare significati attraverso quesiti e punti di vista diversi tra loro.

Per farlo non serve leggere e studiare decine di libri di crescita personale, non serve la motivazione, non servono tecniche di negazione, bisogna soltanto essere.

La mia filosofia è nell’amore, nella genuinità e nella spontaneità d’essere, tutte caratteristica che penso ognuno abbia dentro di sé e che può coltivare e portare nella propria quotidianità.

C’è solo da essere, c’è solo da vivere.

Salvatore.